Il Paese

I Bigonai del Casentino

di Giorgio Batini
da La Toscana paese per paese, 1987, Bonechi Editore, Firenze

Si chiama Moggiona, è un piccolo villaggio del Casentino, ma è una grande capitale del legno. È l'ultimo rifugio degli artigiani delle asce e della pialla, è l'ultimo regno dei bigonai, anche se ormai sono pochi quelli che sanno chi siano e cosa facciano coloro che portano questo nome. Eppure c'è stato un tempo in cui, verso autunno, verso i giorni della vendemmia, si parlava di Moggiona in gran parte della Toscana, perché il villaggio casentinese era una gloriosa bandiera dell'artigiana­to contadino, era un vecchio amico delle vigne e delle cantine, e una volta quando uno sorseggiava un bicchiere di vino, e sentiva il sapore e il profumo della terra toscana, dei colli valdarnesi, dei giaggioli di San Polo, dei poggi di Castellina o di Radda, delle vigne aretine, fiorentine, senesi, sentiva anche il profumo del legno stagionato di Moggiona, sentiva anche il profumo delle foreste di Camaldoli. Nel bere il Chianti si beveva anche un po' di Camaldoli, anche un po' di Moggiona, anche un po' di Casentino.


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Le strade dell'alpestre paese di Moggiona, sulle pendici della montagna di Camaldoli, ospitano
alti cumuli di legname, che servono al tipico artigianato locale. Nella foto: Rodolfo Roselli.

Moggiona si trova sulla strada che da Poppi s'inerpica verso la foresta e l'eremo di Camaldoli, ed è uno di quegli antichi villaggi nati intorno a una pieve o a un castello (come Lierna, Partina, Ragginopoli) che fecero parte di una contea, che appartennero a vari signori, al conte Guido Guerra, ai conti Guidi di Romena, al conte Bandino di Monte Granelli, e poi al Capitolo della cattedrale di Arezzo, o al Comune aretino, per poi finire sotto la protezione della Repubblica di Firenze. Come gli altri paesi, Moggiona era un villaggio povero, ma aveva anche anticamente la particolarità di essere una patria e una culla di bigonai. "Gli abitanti di Moggiona - si legge in un celebre testo ottocentesco - ritraggono una misera sussistenza dai .lavori di faggio per barili, bigonce, ed altri utensili campestri e da cucina, non che dalle opere che essi fanno nel!' abetina di Camaldoli come per esempio nel taglio dei vecchi abeti, nella piantagione dei nuovi, nel traino dei fusti, e in quelli di una campagna alpestre in cui maggior frutto si riduce a castagne, a piccoli armenti di pecore e ad un assai discreto numero di maiali".

Il paese si presenta come un armento di case sparse in un falsopiano, tra prati, boschi di latifoglie e conifere, ai piedi di una vasta groppa montana coperta di castagneti, abetine, faggete; ed è un luogo bellissimo per fermarsi, per respirare l'aria prodotta da una grandiosa fabbrica di ossigeno, per godersi gli alpestri e sereni paesaggi casentinesi, per sfuggire anche solo per un giorno alle inquietudini e alla febbre del nostro tempo, per assaporare i silenzi degli eremi e la pace degli eremiti. Ed anche per curiosare in qualcuno dei tanti laboratori dei bigonai, in una delle tante botteghe artigiane che sono annunziate sulla strada da cataste di tronchi scortecciati, montagne di travetti e di doghe.

Foto 2
Un "bigonaio" di tradizione prepara le doghe di legno che un tempo erano usate specialmente per fabbricare
bigonce, barili, ed altri recipienti atti alla raccolta e alla lavorazione dell'uva:
oggi gli artigiani di Moggiona
fabbricano ancora vasi vinari ma in numero molto minore
di quelli di un  tempo, e si dedicano principalmente
a produrre arredi casalinghi, ornamenti
rustici e altri oggetti in legno di tipo ornamentale. Nella foto: Federico Giovannelli.

Ma c'è gente che non sa nemmeno cosa siano i bigonai e le doghe, e non si ferma a guardare, e tira di lungo nella fretta di arrivare a Camaldoli che ormai è a soli cinque chilometri di distanza. Certe cose, e certi nomi, sono oggi scomparsi. "Bigoncia" per esempio non si dice quasi più, "doga" non si sente dire quasi mai (e c'è magari chi crede che si alluda alla... mòglie del doge) e quindi bisogna spiegare, almeno alle giovanissime generazioni cittadine, di cosa si tratti. La bigoncia, per chi non lo sapesse, è un recipiente di legno, stretto alla base e più largo alla bocca, alto una settantina di centimetri, costruito con tante assicelle (le "doghe", appunto) disposte una accanto all'altra verticalmente e circolarmente, e legate insieme da alcuni cerchietti di legno incastrati e martellati a forza. Un tempo le bigonce erano i recipienti tradizionali della vendemmia toscana:, che si distinguevano tra il bigone aretino corrispondente a due staia di grano (due bigoni sono un quintale d'uva), e la bigoncia della campagna fiorentina più piccola, che corrisponde a uno staio e mezzo di grano (due bigonce fanno settanta chili d'uva).

Le bigonce servivano a raccogliere l'uva nelle vigne e a trasportarla nelle cantine. Ora si usano preferibilmente recipienti di plastica, ma una volta, senza il lavoro dei bigonai di Moggiona, non si poteva vendemmiare, non si poteva celebrare la grande festa autunnale del vino. Il paese faceva seicento abitanti, i bigonai erano oltre una cinquantina; le botteghe, i laboratori, si aprivano uno accanto all'altro, e non c'era famiglia che non possedesse anche un paio di somari per trasportare il legname necessario dalla vicina foresta di Camaldoli e accatastarlo sulla strada per farlo stagionare. Gli artigiani di Moggiona lavoravano duramente per alcuni mesi, accumulavano fuori delle botteghe piramidi di bigoni casentinesi, di bigonce fiorentine, di barili, di catini di legno, di mastelli, e poi un giorno - improvvisamente - il paese si vuotava di tutta la produzione. Questo si verificava perché il grande sfogo dell'industria moggionese era la famosa fiera di Arezzo del 9 settembre, e la notte della vigilia da Moggiona partivano per Arezzo non si sa quanti barrocci carichi di bigonce e barili, che erano acquistati alla fiera da contadini, fattori, mediatori, cantinieri, e che partivano per la VaI di Chiana, per il Valdarno, il Chianti, per Montepulciano e Monta1cino, per San Casciano, l'Empolese, il Monte Albano, il Mugèllo, e per altre campagne toscane. Ma il lavoro non si esauriva con la fiera di Arezzo. Tutt'altro. I bigonai di Moggiona prendevano i ferri del mestiere e partivano con il loro carico di doghe per fare il giro dei clienti, il giro delle fattorie, che si preparavano alla vinificazione: lì c'erano da aggiustare una decina di bigonce vecchie, lì c'era da riparare un barile, lì da sostituire una doga, lì da aggiustare un cerchio, lì da fabbricare un po' di recipienti nuovi.

Foto 3
Ilio Piombini

Poi la campagna toscana cambiò volto. Nei campi comparve­ro i recipienti di plastica, nelle cantine i vasi vinari di cemento, e si andò esaurendo la richiesta di bigoni e di barili. Anche la richiesta di tutti gli altri recipienti che si facevano a Moggiona, come ad esempio i mastelli per la mungitura, come i bigoncioli per prelevare il "bottino", come i "mescìni" che servivano a dare il pozzo nero ai prodotti dell'orto.

Ma le dinastie dei bigonai di Moggiona non si arresero. Dinastie illustri con rigogliosi alberi genealogici. Gianfranco Ballerini, ad esempio, che dirige oggi (con il suo fratello e collaboratore Giulio) un grande laboratorio e un grande magazzino di arredamenti rustici, di articoli da regalo, di accessori per la casa, è figlio di Angiolo Ballerini che lavorava le doghe, come le lavorava suo padre Giovan Battista, suo nonno Pasquale, e il suo bisnonno che si chiamava Angiolo come lui. I Ballerini lavorano il legno da quattrocento anni. Dinastie come quelle dei Giovannelli, dei Piombini, ed altre ancora, non si arresero, e anziché gettare le doghe alle ortiche, le adattarono al mondo nuovo, alle nuove esigenze, special­mente a quelle dell'arredamento domestico, e invece di fabbricare utensili per l'agricoltura e per le cantine, produsse­ro arredi casalinghi, ornamenti rustici per le stanze, gli ingressi, i salotti, le cucine, le camere, delle case di città: perciò portavasi, portaombrelli, portariviste, attaccapanni, scola­piatti, vassoi, rastrelliere, ed anche mestoli, taglieri, mortai, scodelloni, candelabri, ed oggetti di tutti i generi. Dicemmo una volta che questi pezzi di legno che sono accumulati fuori dei laboratori di Moggiona hanno già dentro una bella cosa scolpita, e basta togliere il superfluo per farla nascere viva, come avrebbero fatto Michelangelo e Geppetto, toscani tutti e due.

Foto 4
Federico Giovannelli

Il legno straripa ancora dalle botteghe, invade ogni spazio, arreda le piazzette e le vie. In parte gli artigiani si avvalgono delle moderne tecniche, ma alcuni usano ancora i vecchi ferri che sono anche conservati in un piccolo museo dove sono raccolti vecchi banchi da lavoro, graffietti, asce, pialle, rasine, piegatoi, succhielli, lime, bucatoie, raspe, e pettorine. Ricordano il tempo delle bigonce, e sono un prestigioso stemma del Casentino dove fiorisce da sempre la civiltà del legno. Dove crescono faggi e abeti dai tronchi secolari e colossali, dove il legno fa parte del paesaggio, e dove i vecchi che incontri nei sentieri delle montagne hanno volti stagionati e legnosi, hanno profili scolpiti, rughe intagliate.



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