Il Paese

Statuto di Moggiona
e documenti annessi
(fine 1268-inizi 1269)*.
  
Pierluigi Licciardello & Gian Paolo G. Scharf

articolo apparso su Archivio Storico Italiano,
Anno CLXV (2007), N. 611 - Disp. I (gennaio-marzo)

(Le note si apriranno in un'apposita finestra)


5. Lo statuto di Moggiona e la società del castello
 
   Il testo che presentiamo si presenta compatto e apparentemente breve nel registro monastico in cui è copiato. Diciamo questo perché nella copia che forse fu redatta per il castello esso doveva invece far bella mostra di sé occupando un’intera pergamena in forma distesa, offrendosi dunque come “monumento” del vivere civile del paese. Più di altri testi in effetti quello di Moggiona appare completo quanto a prescrizioni riguardanti la giustizia civile, i danni dati, la bassa giustizia criminale e la soggezione, anche onorifica, all’eremo [53].
   Ciò non ostante i 29 articoli dello statuto non prescrivono tutto – e ciò non è sorprendente – : né l’alta giustizia criminale è trattata, né gli aspetti fiscali della signoria, né l’organico comunale e i suoi compiti. Sono esclusioni che meritano una spiegazione: se la giustizia criminale, come in altri casi, è probabilmente lasciata all’arbitrio del signore (ma si potrebbe supporre anche una interessata intromissione della città), o eventualmente del suo rappresentante in loco, la materia fiscale ha quasi certamente, dopo quanto abbiamo detto, una sua precisa importanza tale, da far riservare al dominus ogni decisione sulla sua incidenza. Il silenzio dello statuto in questo caso potrebbe a dire il vero anche far supporre una non rara avocazione urbana delle competenze fiscali, ma gli altri documenti del dossier sono in questo caso più espliciti e ci mostrano che l’intervento cittadino, se ci fu, si limitò probabilmente all’imposizione di una cifra forfettaria, forse un tanto a fuoco fiscale, come è attestato in altri casi vicini [54].
   Il giuramento di fedeltà degli homines che pubblichiamo, infatti, oltre alle clausole tipiche di questo genere di impegno, prese a prestito dal linguaggio feudale, conteneva l’obbligo di pagare “omnes collectas, exactiones, datia, quot et quanta fuerint eis imposita”, contemplando dunque la totale discrezione del signore. Il successivo allibramento, che pubblichiamo, dimostra che la possibilità non fosse puramente teorica; il documento è anzi assai chiaro nel distinguere le cifre dovute come censo dei tenimenta in concessione dall’eremo da quelle della “comandisia … occasione iurisdictionis”. È dunque evidente che il signore nello specificare puntigliosamente i propri diritti fondiari intendesse ribadire la propria natura di padrone eminente di buona parte – se non di tutta – la terra pertinente al castello, riconfigurando la signoria nel senso di una Grundherrschaft ormai predominante nell’aretino, senza per questo tuttavia rinunciare alle proprie prerogative fiscali. È interessante poi notare che i nomi dei giuranti, per quanto è possibile appurare, corrispondessero in buona misura a quelli degli allibrati e probabilmente alla quasi totalità del castello, che non poteva albergare molto di più di 37 nuclei familiari (cioè fra i 160 e 170 abitanti, secondo i coefficienti più usati in questi casi) [55].
   Un simile discorso può probabilmente venire in aiuto per spiegare la terza assenza, non così assoluta come potrebbe sembrare. Lo statuto infatti ci mostra attivi tre generi di officiali nella signoria, cioè il podestà, i consoli e i custodi delle messi, che in altre realtà si chiamano campari. Se di nessuno di essi si specifica la modalità di elezione, degli ultimi almeno si precisano i compiti e il salario. Per il podestà e i consoli tuttavia sono i restanti documenti del dossier a chiarirci le idee: il podestà, a cui gli homines erano tenuti a obbedire come al priore dell’eremo, era eletto da quest’ultimo e aveva un salario, piuttosto alto data la consistenza demografica del castello, di 100 soldi di denari minuti. Ne siamo informati dall’elezione di Niccolò, visconte di Camaldoli attivo in questi anni, fatta proprio nello stesso 1269 dal medesimo priore; in essa tuttavia non si specificava l’arbitrio del rettore, che permaneva dunque piuttosto ampio. Anche i due consoli del castello, eletti sempre dal priore, ma fra gli homines, contestualmente alla nomina del podestà, non avevano compiti specifici, ma dobbiamo supporre che il loro ruolo fosse duplice: da un lato coadiuvare il rettore nell’amministrazione della signoria – tanto più che la carica viscontile dello stesso presupponeva impegni non lievi – , dall’altro difendere di fronte al signore e al suo rappresentante in loco gli interessi della comunità. In questo modo la dialettica del potere fra dominus e dominati era trasferita nel rapporto fra queste due cariche: che questo non fosse un problema puramente teorico è provato da alcuni articoli statutari che prevedevano l’intercambiabilità del potere coercitivo fra questi due livelli di comando, sia pure solo per determinati argomenti minor [56].
   Anche la scelta dei consoli fa riflettere: i due uomini eletti dal priore, Bruno e Detaiuti di Bonico, sono presenti fra i giuranti, ma solo il primo dei due figura fra gli allibrati, per una cifra peraltro modesta. È possibile tuttavia che Detaiuti non avesse beni in proprio, dato che nella classe superiore della società di Moggiona era presente Bonico, con ogni probabilità suo padre. Non siamo informati su quali fossero le basi che fondavano la stima della “comandisia” da pagare – probabilmente ancora fondiarie, nel senso allodiale, o di generica ricchezza – ma il confronto fra le cifre e quello fra l’importo dei censi converge nel suggerire che la scelta del priore fosse stata fatta per rispecchiare nel ristretto collegio consolare almeno un minimo della varietà presente nella società del castello [57].
   Un po’ più difficile risulta identificare i sei uomini incaricati di compilare lo statuto, innanzitutto perché l’elezione parla di quattro persone ma poi dà il nome di sei. Si potrebbe pensare che i primi due siano i consoli, optati d’ufficio, ma i loro nomi sono quelli di Bruno e Bonico, cioè un console e il padre dell’altro, forse in una surrogazione dovuta alla maggiore esperienza. I restanti quattro, Canti, Aiuto, Testa e Fantone, tutti presenti fra i giuranti, sono diversamente connotati dal punto di vista patrimoniale: Aiuto paga un censo medio ma ha la maggiore “comandisia” del castello; Testa si situa a un livello medio tanto per il censo quanto per la “comandisia (entrambi condivisi con Guido, forse il fratello); Canti invece compare due volte, una prima per una “comandisia” media, una seconda per una frazione molto modesta di un podere che un certo Talento tiene per sua moglie; d’altronde lo stesso Talento detiene un altro podere con Fantone, ma nessuno dei due è registrato per una “comandisia”. Da ciò si deduce innanzitutto un certo grado di parentela fra questi tre personaggi (l’ipotesi più probabile è che Fantone e Talento siano fratelli e che quest’ultimo abbia sposato la sorella di Canti); in secondo luogo l’esistenza di persone non soggette ai diritti signorili monetizzati nella “comandisia” ma legate all’eremo solo per le concessioni fondiarie (un altro caso è quello di Diana, moglie di Forte; ma lo stesso Forte oltre a detenere un altro podere paga la sua quota della “comandisia” ed è quindi probabile che tale diritto non si eserciti sulle donne non viventi “sui iuris”). Questo fatto non fa che confermare l’impressione di una signoria innanzitutto fondiaria, anche se due sole eccezioni costituiscono ancora una forte presa della componente bannale della stessa, e ciò, come abbiamo detto costituisce la peculiarità del dominatus camaldolese (o almeno di questa parte del dominatus) [58].
   Le cifre che abbiamo poi ci permettono anche qualche valutazione statistica: innanzitutto il censo medio si aggira attorno ai 10,5 denari, la “comandisia” media quasi a 12 denari; sono cifre tutto sommato modeste, se si considera che il fodro imperiale, che in molti centri rurali rimase la base dell’imposizione diretta anche per la città, era di 24 denari per fuoco. Ma anche la somma totale di quanto Camaldoli ricavava dal castello è decisamente minima: il censo totale era di 366,5 denari, pari a una lira e mezzo, mentre la “comandisia” totale, di poco inferiore, rendeva 354,5 denari, cioè poco più di una lira e 9 soldi. Se poniamo mente allo stipendio del podestà, di 5 lire, o al prezzo medio di un farsetto, che sul mercato di Arezzo si vendeva per 26 soldi, cioè una lira e 6 soldi, possiamo apprezzare appieno il valore modesto del prelievo sul castello e insieme la puntigliosità dei monaci, la cui spesa anche solo per la registrazione notarile dell’allibramento doveva essere stata di gran lunga superiore alla resa annuale [59].
   Tali cifre purtroppo non sono completamente confrontabili con altre situazioni analoghe, poiché il dossier di Moggiona è un unicum nel pur ampio complesso documentario camaldolese (e lo stesso dicasi per gli altri signori dell’aretino). Sono infatti conservati numerosi registri di censi dovuti per la proprietà fondiaria, che ci danno cifre leggermente più alte in media, ma non di molto; gli unici due allibramenti conservati sono quelli di Soci, appartenente all’eremo, del 1267, e di Civitella, castello della badia del Trivio a Montecoronaro, del 1304. Entrambi tuttavia danno le cifre complessive dell’allibramento di ciascun contribuente, che dovevano costituire la base imponibile su cui calcolare di volta in volta l’importo dell’imposta. È evidente dunque che per poter paragonare le tre serie ci vorrebbe la conoscenza del coefficiente che veniva usualmente (o di volta in volta) utilizzato per calcolare l’imposta. Anche così comunque non si sfugge all’impressione di una pressione fiscale piuttosto bassa nel caso di Moggiona, tanto da avvalorare l’ipotesi che a quella signorile si potesse aggiungere un’aliquota cittadina, magari ancora legata all’eredità del fodrum imperiale, come abbiamo detto di 24 denari per fuoco [60].
   Detto questo ci rimane da vedere cosa effettivamente sia presente nel testo statutario. Si deve partire dalla considerazione che i 29 articoli che lo compongono non sono posti alla rinfusa, ma presentano un abbozzo di ordinamento tematico, come si osserva più o meno anche per gli altri statuti rurali della regione. Ciò può essere considerato un influsso della normativa urbana, che a questa data si presentava probabilmente – o si avviava ad essere – riorganizzata in libri tematici, secondo partizioni ancora empiriche che però a partire dalla redazione del 1327 si sarebbero canonizzate nei quattro libri dedicati rispettivamente all’organico comunale e alle sue competenze, ai danni dati e ai diritti del comune, alla procedura civile e infine a quella penale, come in molti altri casi [61].
   Niente di così rigido e definito si presenta naturalmente ancora nella nostra carta, ma è innegabile la riunione di rubriche di contenuto affine: dopo due articoli riguardanti i diritti e l’honor dell’eremo, si presentano cinque articoli latamente riferibili alla procedura penale, che sfumano poi nei quattro dedicati alla procedura civile. Anche in questo caso il passaggio al danno dato, e genericamente alla polizia urbana e al rispetto dei beni privati è graduale, potendosi presentare alcuni dei sette articoli seguenti in entrambe le classificazioni, che, come tutte quelle fatte a posteriori, risultano un tantino artificiali. Difatti seguono altri due articoli nuovamente di procedura penale e quindi altri sei inerenti al danno dato e soprattutto ai custodi delle messi (e anche alcuni di questi articoli sono indifferentemente classificabili pure nella procedura civile). Dopo due ulteriori rubriche sul potere coercitivo degli officiali, quindi sul valore della iurisdictio, l’ultimo torna a all’honor del priore generale, in una circolarità della disposizione che non può essere frutto del caso. Questo sommario schema presenta analogie piuttosto forti, come abbiamo detto, con gli altri statuti rurali rimastici, e anche tale fatto rimanda alla circolazione di modelli – probabilmente di matrice urbana – piuttosto diffusi, anche se interpretati sempre con grande libertà. Gli stessi articoli, pur con qualche vistosa eccezione, si presentano molto simili un po’ in tutti gli statuti rurali che conosciamo nella zona, e questo è spiegabile con una certa omogeneità che doveva caratterizzare la normale vita delle signorie, in cui si presentavano sovente gli stessi problemi, dall’ordine pubblico al rispetto dei beni privati [62].
   Sicuramente caratteristiche di questa redazione sono tanto le rubriche sull’honor dell’eremo, quanto le due proibizioni, di ordine pubblico, di tenere strame e di far bucato nel castello, non attestate altrove nell’aretino. Particolarmente rilevante poi l’elevata ammenda inferta ai danneggiatori delle mura del castello: i dieci soldi per i contravventori notturni avvicinavano questa azione, che poteva essere una forma di ribellione o di tradimento a favore di altri signori e delle loro masnade, al furto. Solo due altre infrazioni erano punite con maggiori pene: il ferimento con effusione di sangue (20 soldi) e la violazione di domicilio (valida anche per le messi, con una pena di 40 soldi). Anche senza contare questi due casi eccezionali, la pena di 10 soldi, cioè mezza lira, se confrontata con le cifre prelevate per la signoria di cui abbiamo detto, risulta molto alta e pari comunque a un ventesimo dello stipendio annuale del podestà. Se, come in altri centri, secondo la consuetudine all’officiale accertante spettava una quota dell’ammenda, lo stipendio dello stesso diventava ancora più elevato, potendo risultare appetibile anche per i cittadini, che in altri casi componevano il normale bacino di reclutamento di rettori e podestà signorili. Tali ammende sono comunque in linea con gli altri casi paragonabili (Alberoro e Castiglion Fatalbecco), mentre solo a Soci abbiamo pene più elevate, conformemente alla maggiore ricchezza e popolosità del castello. Quello che è da notare nel nostro centro è semmai la loro rilevanza “interna”, cioè paragonata alla povertà e ridotta dimensione di Moggiona [63].
   Possiamo infine rilevare la diffusione locale di certi insulti, puniti dallo statuto: al costante uso di “meretrix” (“putta” a Soci) per le donne, si accosta “boççus” o “boçça” (cioè cornuto) per gli uomini, diffuso ovunque [64].
   Il testo che pubblichiamo dunque testimonia di alcune particolarità della situazione di Moggiona, che tuttavia non inficiano l’ipotesi di forte circolazione di modelli, di matrice più o meno urbana, nella redazione degli statuti rurali. È questo forse il problema di maggior rilevanza e insieme di validità più generale che la nostra carta costituzionale propone all’attenzione. In una situazione paradigmatica di forte signoria rurale e di limitata penetrazione urbana nel contado, quale è per certi versi quella aretina, è opportuno infatti riflettere sulle modalità alternative al controllo diretto che si potevano presentare al gruppo dirigente comunale di molte città dell’Italia centro-settentrionale duecentesca [65].




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